Un nuovo record positivo è stato battuto alla fine di giugno: 103 tonnellate di plastica disperse nel mare sono state raccolte e spedite ad appositi centri di riciclo. Stando a quanto scrive BusinessInsider, non faranno più parte dell’enorme massa che inquina l’oceano. E’ un piccolo passo, ma segna un punto di svolta. Il prelievo è stato fatto nell’ambito del progetto Kaise, una missione scientifica che studia il fenomeno e cerca di porre una soluzione. In particolare i loro occhi sono puntati sul Great Pacific garbage patch, la più grande delle isole di plastica che ormai galleggiano ovunque nel mondo. Composta prevalentemente da plastica, metalli leggeri e residui organici in degradazione, è situata nell’Oceano Pacifico.
Ha un andamento circolare ed è formata dalle correnti. Sono queste a mettere insieme i rifiuti e a portarli a formare il grande ammasso di reti, scarpe, secchielli, cotton fiocc, ciotole, carte di credito, bicchieri e piatti, e in futuro anche mascherine e guanti prodotti durante la pandemia. Il 49 per cento sono oggetti monouso. L’isola si sposta seguendo la corrente oceanica del North Pacific gyre, il vortice di correnti oceaniche, uno dei cinque più grandi, situato tra l’equatore e i 50 gradi di latitudine, largo 20 milioni di chilometri quadrati. La spazzatura che si trova in quest’area arriva soprattutto dal nord e dal sud America. Si stima si estenda fino a oltre un milione di chilometri quadrati e accumuli 3 milioni di tonnellate di immondizia. Secondo il Noaa americano la densità è 20 volte maggiore a quella media mondiale.
Il progetto Kaisei, lanciato nel 2009 dall’Ocean voyages Insititute, fa parte di una realtà californiana che si occupa di conservazione marina ed è stata fondata nel 1979 da un gruppo internazionale di marinai, educatori e biologi. A giugno dell’anno scorso era stata compiuta un’altra missione durante la quale erano state sottratte 40 tonnellate. Viene utilizzata una barca, il Kwai, di 42 metri, ma è stata sviluppata una tecnologia che permette di agire con maggiore efficacia e precisione. Sono stati infatti progettati dei radiofari galleggianti con gps e droni che permettono un accurato monitoraggio dell’area e rendono più facile organizzare le operazioni di recupero. Il vascello è partito dal porto di Hilo, nelle Hawaii ed è approdato poi a Honolulu, dopo 48 giorni.
L’impresa è solo all’inizio. Le isole di plastica sono ormai sette e si trovano dall’oceano Artico al mar dei Sargassi, nell’Atlantico, nel Pacifico e nell’Indiano. Ce n’è una anche nel mar Mediterraneo. Raccolgono gli oltre 10 milioni di tonnellate di rifiuti che ogni anno invadono le acque, formando discariche galleggianti. Già ora in totale sono oltre 150 milioni. Sono dovute al fatto che solo il 15 per cento della plastica prodotta viene correttamente riciclato, al punto che gli esperti stimano che entro il 2050 il loro peso sarà superiore a quello dei pesci. Stime economiche considerano che le perdite dovute a questi materiali sono tra i 259 e i 695 milioni di euro, e colpiscono principalmente per i settori ittici e del turismo. Per non parlare dei danni biologici: la plastica ferisce gli animali, oppure viene ingerita, il che provoca soffocamento, o morte dovuta alle sostanze tossiche. Il problema non sono neppure i frammenti più grossi, ma le microplastiche, che si formano a causa della degradazione provocata dal sole e dalla corrente, che non modifica la molecola ma solo la rende microscopica e dunque ancora più pervasiva, dunque capace poi di arrivare, come è stato dimostrato, sui ghiacciai alpini o nell’acqua potabile.
L’Ocean voyages Insititute ha in programma di far partire una seconda volta la nave nel corso di questa estate. In futuro sperano di poter contare su una flotta di tre vascelli per moltiplicare i risultati. Per ora continueranno a lavorare sul Great Pacific garbage patch, ma visto che la loro soluzione è facilmente adottabile, sperano di poter iniziare a smantellarne anche altre.